Paola Ferrari ha rilasciato una lunghissima intervista per Vanity Fair questa settimana, dove ha parlato del suo desiderio di diventare mamma per la terza volta. La donna ha già due figli, un ragazzo di 17 anni e una ragazza di 16; due gravidanze piuttosto difficile, che l’hanno fatta riflettere sull’utero in affitto. Stiamo parlando di madri surrogate, che portano nel proprio grembo il figlio di qualcun altro. Ecco che cos’ha dichiarato la giornalista Paola Ferrari in merito, dopo aver conosciuto questa madri in prima persona a Los Angeles: “Conosco tante che vorrebbero essere madri senza riuscirci, vedo la loro sofferenza. Si sentono incomplete, hanno mariti che, nel migliore dei casi, soffrono in silenzio, e questo si ripercuote anche sul rapporto di coppia. Non riesco nemmeno a immaginare che uomo sarebbe mio marito, oggi, senza i nostri gli che sono la sua ragione di vita. Si sarebbe consumato in una vita di solo lavoro”.

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“Perdoni la franchezza, ma trovo che in questo Paese ci sia un’esagerata mistica della maternità, che per di più si pretende valga per tutte: non è vero che la gravidanza è il periodo più bello per ogni donna, non è vero che durante quei nove mesi tutte instauriamo un rapporto simbiotico con il bambino. Rispetto quelle che hanno avuto la fortuna di viverla così, sono felice per loro, ma non siamo tutte uguali. Io, per esempio, ho avuto gravidanze molto difficili. Sono stata malissimo fisicamente, ho anche attraversato una depressione. Non vedevo l’ora che finissero, il che non significa che non ami i miei figli o che li ami di meno. E come me, ce ne sono tante altre. Il problema è che abbiamo paura di ammetterlo perché noi donne siamo ancora prigioniere dei pregiudizi. Ci si aspetta che soffriamo e partoriamo senza un lamento né un limite al dolore. Non volevo il figlio unico. Però, mentre Alessandro l’avevamo cercato a lungo, l’arrivo di Virginia è stato una bellissima sorpresa, anche se costellata di ansia. Anni dopo, quando mi è venuto il desiderio di un terzo figlio, i medici mi hanno assolutamente sconsigliato: la patologia si era aggravata, era difficile prevedere come sarei stata. Io mi sono incaponita a sospendere i farmaci per cercare di restare incinta, ma in un mese sono finita tre volte all’ospedale. Ho dovuto rinunciare. Fino a quando, pochi anni fa, alcune amiche americane hanno iniziato a parlarmi di maternità surrogata. Ho chiesto informazioni in Italia e ho raccolto solo pareri molto negativi. Ma visto che sono cocciuta e faccio la giornalista, ho deciso di andare a vedere di persona. Ho preso una settimana di ferie e sono volata a Los Angeles. In quello che ho visto io non c’è neppure l’ombra dello sfruttamento. Sono donne normali, di ceto medio e mediamente colte, madri di famiglia, quasi tutte con due figli, che mettono a disposizione di altre donne la loro facilità di procreare, ma solo quella: il materiale genetico non può essere il loro. Vivono la gravidanza con naturalezza, condividendola con la propria famiglia, che partecipa. Vengono pagate, ma il denaro non è l’unica motivazione: si sentono utili e hanno il piacere di fare un dono così importante. Lo scopo è nobile, non c’entra nulla con la prostituzione: quella sì che è sfruttamento, eppure chi va con le prostitute non finisce in galera. Comunque, l’incontro con la surrogata è il passaggio più delicato di tutto il percorso. E infatti lì per ora mi sono fermata. Ma non è detto che non decida di andare avanti, in un futuro prossimo”. CONTINUA A LEGGERE

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