“Ministro prepari la valigia, venga all’estero…”: così una ragazza risponde agli insulti di Poletti

“Se 100mila giovani se ne sono andati dall’Italia, non è che qui sono rimasti 60 milioni di ‘pistola’. Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”. Questa uscita clamorosa del ministro Giuliano Poletti ha scatenato una selva infinita di polemiche. E di risposte soprattutto, da parte di chi è dovuto emigrare per garantirsi un futuro migliore. Tra tutte, la replica di Lara Lago ha conquistato il web. Giovane giornalista veneta che oggi vive ad Amsterdam, la lettera che Lara ha pubblicato su Facebook è stata condivisa migliaia di volte… PER CONTINUARE A LEGGERE, CLICCA SUL PUNTO 2 DELL’INDICE[nextpage title=”La lettera”]

“Caro Ministro Poletti, questa non è una lettera di protesta ma un invito, suo, personale, lo prenda in considerazione. La invito a chiudere la sua vita in una valigia, 23 chili per la precisione. Ci metta dentro i suoi effetti personali, vestiti, foto di un paese assolato, speranze, competenze mischiate tra lo spazzolino e le scarpe da ginnastica. Perché ci sarà da correre. Venga pure da solo. Preghi non tanto di parlare un buon inglese, quello è vitale e lo diamo per scontato, a lei come a tutta la vostra classe politica, si auguri piuttosto di capire ogni venatura degli accenti inglesi che popolano il mondo: quello spigoloso dell’indiano a cui dovrà chiedere indicazioni in stazione, quello veloce degli autoctoni cresciuti senza doppiaggi anche in un paese non anglofono, quello dei madrelingua in azienda, americani, australiani, inglesi, i capi che la scruteranno dall’alto al basso solo per le sue idee e per la capacità di esprimerle, non certo per la sua cravatta o per come è stirata la sua giacca. Qui nessuno usa il ferro da stiro, tanto per dire, e l’essere brillanti non ha bisogno di essere inamidato. Venga Ministro. Nei primi giorni, quando fa buio provi a rientrare a casa con agilità, provi cosa significa il dover partire da zero. E quando dico zero intendo non sapere più fare la spesa perché i nomi sono tutti diversi e a comprare il burro con il sale ci si mette un attimo. Soprattutto se nemmeno si immagina l’esistenza del burro con il sale. Quando dico zero intendo nessuno che la aspetterà a casa, nessuno da chiamare se prenderà una storta sulle scale. Certo, urlando Help qualcuno la sentirà. Ma non si aspetti il calore italiano, caro Ministro, che se tutto il mondo è paese non tutti i paesi sono l’Italia e se le si dovesse fermare la macchina in una strada… PER CONTINUARE A LEGGERE, CLICCA SUL PUNTO 3 DELL’INDICE[nextpage title=””]

e se volesse chiamare un collega di lavoro, questo con il suo efficace pragmatismo le manderà un sms con l’indirizzo dell’autorimessa più vicina. Poi chiami in Comune, prenoti un appuntamento, vada a registrarsi in un paese che la sta accettando nella misura in cui ce la farà da solo contro il mondo, compili carte, burocrazia, apra un conto in banca nel nuovo Paese, condivida con altri la casa, il piano, il bagno, a volte la stanza con la sporcizia, i turni per la cucina. E non osi lamentarsi con altri italiani perché all’inizio si sentirà dire ‘È normale che sia così, cosa credi? Di essere in Italia?’. Lei dice che i 100mila giovani che se ne sono andati non sono i migliori. È vero, ma siamo quelli che non si sono accontentati, quelli che non si arrendono, quelli che non tollerano di avere un futuro impacchettato nella nebbia, quelli che, anche se non saranno i migliori, erano troppo bravi a scuola, con troppe idee, troppo spavaldi, con troppa voglia di farcela. Così tanta da non sopportare un Ministro del lavoro che non capisce che se stiamo andando via è solo per questo: per il lavoro. E quando ci stupiamo che qui dopo tre contratti scatti il tempo indeterminato, i mutui abbiano interessi bassi e vengano concessi anche e soprattutto ai giovani e che sì, lavorando si possa ancora comprare una casa, ci sentiamo rispondere: ‘È normale che sia così, cosa credi? Di essere in Italia?’ Un’ultima cosa Ministro. Tra tutti gli italiani che vivono in Olanda non ne ho ancora sentito uno che dica: ‘Si sta meglio qui.’ Tutti invece dicono: ‘Se si potesse vivere una vita così anche in Italia torneremmo di corsa. Ma.’ Non so se il nostro Ma è in mano a lei Ma torneremo solo quando il coraggio e le competenze verranno viste come un valore aggiunto. Coraggio e competenze, non raccomandazioni e furbizia. La aspetto ministro Poletti, anzi no, troppo facile avere qualche appiglio. Si tuffi, è morbido. Sicuramente di più di certe sue affermazioni morbide solo perché inconsistenti. Firmato: una dei 100mila giovani che se n’è andata dall’Italia, una di quelle che ‘è meglio non avere tra i piedi’ come ha dichiarato lei. Una che ci mette la faccia e le idee. Senza poterle o doverle rettificare”.

La moglie del Ministro ha trovato un lavoro straordinario. Ecco come

L’inchiesta è partita dal quotidiano Libero. Michela Di Biase, moglie del ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini e capogruppo Pd nel consiglio comunale di Roma, è passata dalla Cotral (azienda regionale dei trasporti) alla Fondazione Sorgente Group. La coincidenza messa in luce dall’inchiesta è che la fondazione si occupa di arte e cultura, per “sua natura lavora molto con il ministero dei Beni Culturali” e gode di agevolazioni fiscali sui finanziamenti privati. Secondo Libero “potrebbe esserci un conflitto di interessi con il ruolo istituzionale del ministro e pure una sorta di concorrenza familiare, visto che… PER CONTINUARE A LEGGERE, CLICCA SUL PUNTO 2 DELL’INDICE[nextpage title=”La replica del Ministero”]

il ministero non ha a disposizione grandi fondi mentre oggi le fondazioni private possono avere più risorse da investire nella cultura”. All’inchiesta ha replicato un comunicato ufficiale del Ministero: “Il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo non ha alcun rapporto né collaborazione in essere con la Fondazione Sorgente group. Quest’ultima risulta semplicemente beneficiaria di erogazioni liberali da parte di Sorgente group Spa, uno dei soggetti privati presenti nella circolare pubblicata ogni anno dal Mibact per monitorare l’applicazione del testo unico delle imposte sui redditi. Si sottolinea che… PER CONTINUARE A LEGGERE, CLICCA SUL PUNTO 3 DELL’INDICE[nextpage title=”Anche la Fondazione si difende”]

la circolare del Mibact non ha alcun valore di ‘determinazione’ ma di semplice ricognizione, ai sensi delle norme vigenti, delle erogazioni effettuate da privati”. Anche la Fondazione Sorgente ha replicato a Libero: “La Fondazione Sorgente Group, Istituzione per l’Arte e la Cultura, è una fondazione privata ed autonoma, finanziata interamente da Sorgente SGR Spa, e che opera nell’ambito e nel rispetto delle normative fiscali previste dalla legge. La Fondazione è – dal punto di vista economico – interamente autonoma e non riceve nessun contributo dal Ministero dei Beni Culturali. Infine, la Dottoressa Michela Di Biase è stata selezionata dalla Fondazione Sorgente Group per il suo curriculum, la sua professionalità ed esperienza in ambito istituzionale al fine di promuovere le attività culturali della Fondazione stessa”.

Roma, il padre muore di cancro in pronto soccorso: il figlio scrive una lettera al ministro Lorenzin

Una morte assurda quella di Marcello Cairolo. L’uomo è deceduto senza dignità nei corridoi del pronto soccorso del San Camillo, a Roma. Vicino a lui, tra tossicodipendenti e sguardi indiscreti, il figlio Patrizio. Patrizio ha deciso di scrivere una lettera al ministro della Salute, Beatrice Lorenzin. Il ministro ha fatto sapere anche che nei prossimi giorni manderà gli ispettori nell’ospedale romano per verificare quanto accaduto. Clicca sul punto 2 dell’indice per leggere il contenuto della lettera[nextpage title=”Ecco la lettera scritta da Patrizio”]
Ecco il testo della lettera: “Signora ministra, sono passati circa tre mesi dal giorno in cui mio padre ha scoperto di avere un cancro a quello della sua morte; metà del tempo lo ha trascorso ad aspettare l’inizio della radioterapia, l’altro ad attendere miglioramenti che non sono mai arrivati. Nonostante la malattia, ci avevano prospettato anni di vita da trascorrere in modo dignitoso. È stato sottoposto a radioterapia palliativa, ma di palliativo non aveva che il nome: mio padre aveva sempre più dolori alle ossa; alla fine, non riusciva più a camminare e anche le azioni più semplici, come alzarsi dal letto o scendere dalla macchina, erano diventate un calvario, nella totale indifferenza di medici che, oltre ad alzare le spalle e a chiedere di avere pazienza, non sapevano dire o fare altro, se non aumentare la dose di tachipirina. Ci avevano detto che, dopo qualche giorno, avremmo visto i benefici della terapia; poi, di fronte ai dolori sempre più forti avvertiti da mio padre, era diventato necessario aspettare “anche 3-4-5 mesi”. Nessuno ci ha aiutati a comprendere, nessuno ci ha detto quello che avremmo dovuto fare: rivolgerci a una struttura per malati terminali e garantire, con la terapia del dolore, una morte dignitosa a mio padre. Quando l’ho fatto, era ormai troppo tardi: il giorno dopo mio padre è finito in ospedale, al pronto soccorso del San Camillo (che non è l’ospedale dove era seguito), dove finalmente gli è stata somministrata la morfina. Qui, la situazione si è aggravata velocemente. Mio padre è morto dopo 56 ore, passate interamente in pronto soccorso. Lo ripeto: cinquantasei ore in pronto soccorso, da malato terminale, nella sala dei codici bianchi e verdi, ovvero i casi meno gravi. Accanto aveva anziani abbandonati, persone con problemi irrilevanti che parlavano e ridevano, vagabondi e tossicodipendenti che, di notte, cercavano solo un posto dove stare. Il peggio, poi, si verificava nell’orario delle visite: sala sovraffollata di parenti che portavano pizza e panini ai malati e che non perdevano l’occasione per gettare lo sguardo su mio padre. Abbiamo protestato, chiesto una stanza in reparto o in terapia intensiva, un posto più riparato. Ma non abbiamo ottenuto nulla. Allora sarebbe bastata una tenda, tra un letto e l’altro. Invece abbiamo dovuto insistere per ottenere un paravento, non di più, perché gli altri “servono per garantire la privacy durante le visite”; una persona che sta morendo, invece, non ne ha diritto: ci hanno detto che eravamo persino fortunati. Così, ci siamo dovuti ingegnare: abbiamo preso un maglioncino e, con lo scotch, lo abbiamo tenuto sospeso tra il muro e il paravento; il resto della visuale lo abbiamo coperto con i nostri corpi, formando una barriera.Sarebbe dovuto morire a casa, soffrendo il meno possibile. È deceduto in un pronto soccorso, dove a dare dignità alla sua morte c’erano la sua famiglia, un maglioncino e lo scotch. È successo a Roma, capitale d’Italia”. CONTINUA A LEGGERE